(A Davide)
La piazza di Gibellina è nera come il tufo. Il sole sembra quasi sciogliere il cemento e non badare alla mia presenza. Mi avrebbe risparmiato, ne sono certo. Sono solo da mesi in un angolo. Scarsi 45° di solitudine e calore. Alzo il viso e tocco il mento. Sento il sudore perdersi fra le piante di limone. Trascorro il tempo a fissare i passanti, guardo le smorfie e sopporto le urla. Tutti così presi dalla loro vita . Nessuno mi vede.
Sono davvero invisibile?
Andrea ha tanti riccioli biondi. Veste sempre di blu e mostra le sue scarpette rosse, alzando la punta quando i suoi genitori incontrano qualche conoscente per strada. Andrea è vanitosa e ama le caramelle gommose. La domenica il padre si ferma alla pasticceria di Santuzzo e le compra tutte le paste che indica davanti il bancone. Sommerso di invidia, osservo tutto dai miei 45°, il mio recinto di sicurezza. Come se nulla potesse turbarmi. Come se nella realtà fosse possibile creare delle barriere per non subire attacchi di qualsiasi tipo. Mi basterebbe anche solo allontanare le cattiverie e le ingiustizie degli estranei o dei fessi. Sono le più pericolose. E invece no. Non ci sono angoli in cui nascondersi o ripararsi. C’è davvero un momento in cui il destino beffardo decide per noi.
Andrea è l’unica che si accorta della mia presenza. Sì, perché anche se non fa cenni o sorrisi quando attraversa la piazza, non imbocca la via senza prima voltare la testa verso di me. E la vedo allontanarsi così. Il padre e la madre le tengono le mani, ma la sua testa è su di me, con quei riccioli che le cotonano il labbro inferiore trattenuto da una smorfia di stupore.
16 maggio lunedì. Apro gli occhi. Trovo una piccola confezione bianca con un nastro dorato sporco di zucchero a velo. Mai visto una cosa simile, così bella. La apro con delicatezza. Vorrei che questo momento fosse per sempre. Mi spiego: vorrei che ci fosse sempre qualcosa ad aspettarmi, vorrei abbandonare l’odio e l’indifferenza, vorrei che lo stupore fosse il segreto di una vita felice. Che le persone fossero più attente ad ascoltare e a stupire. E cominciassero da se stesse.
Ma il mio pacchetto è sempre lì. Santuzzo in rosso era stampato ovunque. Un grande bignè alla crema con ciliegina rossa. Lo apro. Deve durare più tempo possibile. Allungo l’indice e lecco tutta la crema, contenendo l’entusiasmo. Addento e lo svuoto tutto. Mordo, ingoio, respiro, sorrido. Sento di nuovo un sapore e il rumorio dello stomaco chiuso che riprende a parlarmi. Voglio trattenere il momento, cristallizzarlo, per potermi aggrappare in futuro a quest’ attimo di felicità.
Cosa ti racconterò da grande, Andrea?
Non ho un luogo di provenienza né una famiglia di appartenenza. Non ho identità, non ho icone, non ho un’infanzia, soprattutto. Tutto quello che ho è in 45° di questa piazza. Ci sono domande, paure e speranze. Ci sono io, osservatore silenzioso di una realtà che si muove sempre più veloce, talmente veloce che neanche mi vede. Nessuno che si ferma con un pallone. Neanche i giochi esistono più. E allora cosa posso aspettarmi? Niente. Non mi aspetto niente. Ecco perché un piccolo bignè incartato è il mio più grande tesoro.
Dall’altro lato della piazza, spuntavano da dietro un albero un paio di scarpette rosse luccicanti. Con la punta rivolta all’insù. Sapevo di avere un’importante spettatrice e non volevo assolutamente deluderla. Dopo l’ultimo boccone, mi sono alzato e inchinato come in una perfomance teatrale.
L’ho vista correr subito via. Era solo questione di giorni.
Andrea è tornata il lunedì successivo. Un cesto di vimini con panini, caramelle gommose e un sacchetto di biglie rosse e gialle. Spalle in fuori, petto in dentro. Muoveva le codine con disappunto. Come se avesse programmato l’evento ma leggevo già delusione nei suoi occhi.
– Cosa vuoi che ti dica? Grazie. Davvero.
– Io voglio sapere perché stai tutto il giorno qui. Perché nessuno viene a riprenderti.
– Semplicemente perché nessuno mi ha lasciato dove mi trovo. È un posto come un altro che ho scelto.
Non era pronta a questa risposta. Aveva sicuramente programmato ogni cosa e mi dispiaceva terribilmente doverla stroncare sul nascere. Le ho raccontato che da me la gente muore di fame e di sete. Che la gente paga anche per assicurarsi altri tipi di morte, per inseguire un sogno in un altro paese idealizzato. Che affida le speranza ad un barcone. Che si ammassa, si comprime, si depersonalizza. Rinuncia ad ogni forma di dignità. Le ho spiegato che mia madre è morta disidrata. L’hanno buttata in acqua come quando lanci un sasso per disegnare onde concentriche. Vedevo la rabbia e il dolore ingigantirsi sempre più fino a travolgermi. Vedevo neonati piangere, gambe in cancrena, madri partorire, figli e padri vittime o carnefici. Ho visto il peggio di quest’umanità. Ho visto come ci si comporta quando la disperazione è la colonna sonora della tua esistenza. Se non hai niente da perdere rischi. Anche la morte può essere una soluzione. Forse la più facile.
Andrea non alza più le scarpe. Abbandona la vanità per allungare una mano sulla mia e si siede al mio fianco, per terra. Non le importa del vestito, dello sporco del cemento, del sole cocente. Invade i 45° e rompe ogni regola. Le interessa solo capire quella realtà così diversa e lontana dalla sua.
Ogni giorno trova un espediente per correre da me e parlare. La curiosità è la forza della sua intelligenza e mutevolezza. Non è incoerente, ma solo curiosa. Ama le contaminazioni, non le influenze. Non sono forzature ma comprende perfettamente quanto la realtà sia più complessa dei percorsi guidati che il papà le ha tracciato finora. “Diventerai una grande donna!” le ripeto di continuo.
Sono solito rubacchiare libri a Don Tonino, il prete di Gibellina. Ha un’enorme biblioteca. Sprecatissima. Nessuno in paese è solito visitarla. Così ho deciso l’ultimo furto. Utopia di Moro. Non poteva rispondere alle sue domande, ma le avrebbe sicuramente procurato delle nuove questioni su cui confrontarsi durante la mia assenza. L’ho poggiato nell’ombra del cono del mio abituale recinto. 45° invasi da una piccola grande donna, che da quel bignè con la crema, non è riuscita ad essere più la stessa.
Ho lasciato Gibellina trascinando speranze sul treno Salemi – Messina. Avevo sbagliato a fermarmi lì, lo riconosco. Avevo sbagliato a chiudermi in un angolo, aggrappato alla scelta più codarda. Ma allo stesso tempo, avevo compreso quanto fosse prezioso fermare un pensiero per regalarmi un nuovo fotogramma: Andrea e il suo nuovo libro da scartare.
(Grazie a Luca per il contexture)