László Nemes è un regista ungherese del 1977 che, con la sua opera d’esordio, Il figlio di Saul (2015) , si è aggiudicato l’Oscar per il Miglior Film Straniero, il premio Golden Globe e il Bafta nella medesima categoria, il Grand Prix Speciale della Giuria al Festival di Cannes e, last but not least, il David di Donatello per il miglior film dell’Unione Europea nel 2016.
Motivo del successo è stato sicuramente l’aver reinterpretato un genere –film di guerra e, nella fattispecie, sull’Olocausto – depurandolo da ogni sentimentalismo per un crudo viaggio nell’autentica banalità del male.
Da grandi riconoscimenti derivano grandi responsabilità è proprio il caso di dirlo e potrebbe bastare questo per giustificare il carico di aspettativa assordante dei suoi fan.
Sin dalle prime indiscrezioni, infatti, il titolo Napszállta, in ungherese ‘Tramonto’, aveva galvanizzato pubblico e critica. Una sola parola, calda quanto ermetica, era riuscita a racchiudere il senso di tutto.
L’obiettivo di Nemes è stato chiaro sin dall’inizio: rappresentare un mondo, il suo, in un determinato momento storico.
Non ha scelto l’inizio o la fine, ma il preludio della fine, della notte. Questo comporta l’assenza di una Verità, o della ricerca spasmodica di tale assolutezza, proprio perché privi di una condizione necessaria e sufficiente: l’essere testimoni.
Tramonto, infatti, non è un racconto di testimonianza perché non vi è memoria, ideologia e speranza, motivo per cui sarà meglio seguire un ordine storico.
Dal XVIII secolo fino ai primi decenni del XIX, il destino dell’Ungheria fu legato all’Impero asburgico.
Dopo la sconfitta degli Austriaci nella guerra austro-prussiana del 1866, si giunse alla riforma costituzionale che porto all’Ausgleich, il compromesso tra i nobili ungheresi e la monarchia asburgica, che sancì la nascita della duplice monarchia austro-ungarica nel 1867.
Tale riforma concesse all’Ungheria una considerevole autonomia entro la compagine imperiale. Nell’eleganza e nella regalità del crocevia culturale di quello che fu, per un certo periodo, la Monarchia Danubiana si dissolse rapidamente con la sconfitta subita dopo il primo conflitto mondiale. Questa è la premessa necessaria che introduce lo scenario dove si muove confusa la bella Irisz , magistralmente interpretata da Juli Jacab nel suo primo ruolo da protagonista.
Irisz Leiter lascia Trieste e torna nella natia Budapest per cercare impiego nella prestigiosa cappelleria che fu dei suoi genitori, morti molti anni prima in un incendio. Il nuovo proprietario del negozio, il signor Brill (Vlad Ivanov), prova ad ostacolare in tutti i modi l’inserimento di Irisz presso la sua attività.
La giovane discendente dei Leiter cercherà in tutti i modi di prolungare la sua permanenza, soprattutto dopo aver scoperto l’esistenza di un fratello, Kaiman, di cui non ha ricordi.
Lo stile inconfondibile di Nemes e la maestosità dei set –ai limiti del kubrickiano – sono estasi per la vista, grazie al forte impatto visivo. Ciò non è sufficiente per placare il senso di smarrimento ed impazienza raggiunti durante questa claustrofobica matrioska d’autore.
I paragoni sono inevitabili, nonostante non andrebbero mai fatti in una stessa ‘famiglia’ ed è forse il motivo per cui l’unica risposta ad alcune imperfezioni e debolezze trova giustificazione nell’ eccesso di virtuosismo – a meno che la rappresentazione di un incubo disconnesso sia il fine ultimo delle stesse.
Quello che mi preme sottolineare, ancora una volta, è che ci stiamo confrontando con il ‘next level’, per dirla sportivamente, di questa Settima Arte. Ciò significa soltanto una cosa: augurarsi un anno di Cinema puro, vero, autoriale come quello di Nemes, nella speranza di non dover attendere troppo per il terzo lungometraggio del regista ungherese.
Ultima nota di merito va alla costumista Györgyi Szakács per gli splendidi cappelli, ornamenti che simbolicamente hanno racchiuso l’inutilità stravagante del lusso e il suo più profondo desiderio da parte di una società ormai in decadenza.