Erano le prime vacanze di Natale che trascorrevo a Belvedere. Per anni avevo evitato quel posto apatico e grigio che offriva solo grandi paesaggi e bei tramonti. Era un covo di sacrifici e dolori.
Il giorno di Natale decisi di passeggiare sul lungomare. In realtà volevo farmi vedere. Mostrare agli altri che esistevo ancora, che il mio colore di capelli era proprio quel discutibile biondo platino che vedevano sui giornali, che avevo perso dei chili con quella dieta che facevano tutte le star del cinema americano, che il mio lavoro mi permetteva di vivere dignitosamente anche se tanto criticato in un paese piccolo come Belvedere. E più di tutto volevo mostrare che non provavo nulla per Alfredo Settebellizze, l’uomo più affascinante che avessi mai incontrato nella mia vita.
Sinicata era il quartiere povero di Belvedere. Ero cresciuta lì tra pezzi di pane offerti dai vicini e broccoli che andavo a raccogliere a quindici chilometri da casa. Durante tutte le vacanze (sia in estate che le festività) ero costretta a svegliarmi all’alba per andare nei campi con quella gran donna di mia madre. Finite le scuole riuscii a pagarmi la scuola di teatro a Roma con un po’ di soldi risparmiati negli anni e una piccola eredità lasciata dalla vecchia zia Enrichetta rimasta vedova e senza figli.
Alfredo Settebellizze era il mio vicino di casa e aveva molti più anni di me. Era considerato il ragazzo più bello di Belvedere. Anche le donne sposate erano invaghite di lui. Io lo so perché ogni tanto sentivo che zia Enrichetta raccontava a mamma tutti gli scaldali di Belvedere, proprio perché trascorrendo le sue giornate in campagna, rimaneva all’oscuro di tutto. E in questo via vai di notizie vi erano racconti di donne adulte e benestanti che riempivano Alfredo Settebellizze di attenzioni pur di vedersi restituire qualche ‘notte perversa’. O almeno così diceva la zia.
Ricordo l’imbarazzo in cui sprofondavo ogni mattina. Avevo un vecchio grembiule che ero costretta a lavare ad ogni rientro da scuola. Le elementari, le medie e l’istituto alberghiero Pietro Fedele erano in un unico complesso, situato di fronte la Pretura. Ero l’unica bambina che viveva alla Sinicata in quegli anni e mia madre non aveva tempo di accompagnarmi all’ingresso della scuola. Di qui la brillante idea di affidarmi ad Alfredo per percorrere quei tre chilometri che ci separavano dalla Pietro Fedele. Alfredo fu costretto ad accettare la sua richiesta per educazione, perché a quei tempi ci si aiutava sempre. Durante il tragitto non mi rivolgeva mai la parola se non per chiedermi di stare ‘ad almeno tre passi da lui visto che era uno delle superiori ed io delle elementari’. Io rallentavo e arrossivo pensando che il giorno dopo avrei finto un mal di pancia forte o sarei scesa fino in spiaggia ad affogarmi. Non tolleravo più di quella umiliazione.
Giunti a destinazione mi chiedeva sempre:
‘Da che parti entri, Angelica?’
‘Da sotto’.
‘Ok. Io entro da ‘ncoppa (sopra)’
Il giorno di Natale ero scesa sul lungomare per vederlo.
Alfredo Settebellizze aveva aperto un locale sul lungomare. Era uno dei tanti ristoranti di lusso aperti nel mondo. Non si era mai sposato né aveva avuto figli durante tutti questi anni. Solo una lunga relazione con una giapponese conosciuta durante il periodo in cui si era trasferito a New York. Si lasciarono quando decise di tornare a Belvedere per assistere sua madre, colpita da una malattia degenerativa. Gli amici e i parenti di Belvedere mi riferivano sempre che chiedeva di me.
Ma come potevo dimenticare la barriera di silenzio che aveva innalzato in tutti questi anni? Come potevo dimenticare quel giorno in cui andai a trovarlo nel panificio ‘ Cicciglio’, che aveva preso in gestione, per dirgli che ero riuscita tutti i soldi per la scuola di teatro e che mi sarei trasferita a Roma? Quel giorno misi da parte la vergogna e l’imbarazzo. Eravamo diventati amici quando ormai la differenza degli anni tra noi non era più così pesante. Lui aveva deciso di prendersi cura di me e io mi lasciavo consigliare su tutto. Era il mio maestro di vita, l’unico maestro che avevo. I miei genitori erano braccianti e senza un’istruzione. Da loro non potevo pretendere di farmi da guida in quei pochi momenti che li vedevo riposare a casa. Invece Alfredo no. Lui aveva elementari, medie e alberghiero, si era trovato un buon lavoro e mi aveva visto crescere.
Fantasticavo spesso su una vita insieme, una vita come coppia. Poi mi vergognavo subito e pensavo che non sarei stata in grado di vivere una di quelle ‘notti perverse’ cui Alfredo era abituato, anche con donne più grandi di lui.
Quel giorno andai nel panificio ‘Cicciglio’ per condividere la mia felicità di lasciare quel posto senza futuro. Lo vidi piangere. Continuava a ripetermi che era felice per me ma dovevo lasciarlo solo. Cercava di asciugarsi la faccia con i polsi perché aveva tutte le dita sporche di impasto. Alternava quei gesti maldestri con l’ammasso della pasta. Iniziai ad urlare delle cose indicibili, forse bestemmiai anche. Ora non lo ricordo più. Gli dissi che era un senza cuore, che mi aveva abbandonato, che dalla vita non avevo avuto nulla se non lui e i broccoli che mi raccoglievo nei campi. E che neanche potevo mangiarli dato che era costretta a venderli nel banco di fronte al benzinaio con le mani sporche ancora di terra e i capelli pieni di erbacce.
Mi venne addosso. Cercai di spostarlo ma aggiunse di smetterla. Mi tappò la bocca e mi disse quello che aspettavo dal primo giorno di scuola elementare.
‘Angelica ti amo. Ti ho sempre amato. Amo i tuoi capelli ricci che ogni mattina nascondi in una goffa treccia, i tuoi occhi verdi, la tua dolcezza che hai preservato negli anni e quella speranza di cambiamento che trasmetti durante ogni discorso. Cosa sei venuta a fare qui? A dirmi che vai via? Io non posso dirti di restare perché è QUESTA LA TUA OCCASIONE. Ti aiuterò Angelica. Ti aiuterò economicamente in questi anni. Ma non chiedermi di aspettarti e di stare insieme. Io ho la mia età e sai che paese è questo. Ho bisogno di una donna con cui fare una famiglia e non di una ragazza di vent’anni che si sta trasferendo in una metropoli come Roma per fare l’attrice. Io non posso seguirti la mia vita è qui e sto per aprire un ristorante sul lungomare con quello zio americano che ha deciso di tornare in Italia, a Belvedere. Parti e lasciami così. Resterò un uomo solo ma che ti ha sempre amata’.
Mi tolse la mano sulla bocca e mi strinse a sé. Poi si avvicinò con le labbra sporche di farina e il calore del forno. Sciolse la treccia con le dita ancora sporche di impasto e ci stendemmo sul suo grembiule. Sentivo lui e il temporale d’estate. Come se tutta Belvedere fosse in lutto per il nostro amore. Come se fosse l’ultimo giorno della nostra vita.
Il giorno di Natale entrai nel suo ristorante, il primo di quella famosa catena ‘Settebellizze’ presente in tutte le grandi capitali del mondo.
Avevo una pelliccia bianca e delle calze nere velate con la riga nera che scorreva perpendicolare sulle caviglie sottili, come tutti gli anni che ci avevano separato. Io ero quella cliente venuta dalla città, così mi aveva annunciata uno dei suoi dipendenti. Lui era in fondo il salone con un bicchiere di Müller-Thurgau in una mano e un orologio da tasca nell’altra. Lo controllò e richiuse in tasca. Si toccò il ciuffo brizzolato e solo allora mi riconobbe.
– Alfredo… cosa hai fatto tutti questi anni?
– Sono andato a letto presto, amore mio.