Velocità. Ave Maria di Franz Peter Schubert, la migliore compagnia. Le Marlboro sul sedile del copilota come surrogato della sua presenza. Velocità.
Quando ero bambina, quando ancora non avevo imparato a sognare, lo osservavo costruire castelli di LEGO, divertendosi con dei piccoli pezzetti da sei pallini. Mi chiedo se da ingegnere è ancora così facile ed eccitante. Questo è il primo ricordo che ho di lui. Che ho di noi.
Ho imparato a sognare in un giorno di pioggia mentre ero a scuola. Ricordo che avevo la Kefiah e cantavo con gli amici fuori i bagni del liceo, fingendo di aspirare trasgressioni da un filtro ingiallito. Non sapevo dove sarei finita, ma soprattutto da cosa sarei partita. Poche domande e troppa curiosità verso tutto quello che fino ad allora veniva bollato come “proibito”. Ma l’occhio vigile, il suo, mi guardava da lontano. Lo immaginavo come Sherlock Holmes con tanto di lente d’ingrandimento dietro lo spigolo di un palazzo. Pronto a puntarmi il dito. Un po’ perché gli piaceva giocare a Dio con me. Un po’ perché quell’atavica spensieratezza non gli era mai appartenuta. Poi arrivarono i miei primi tentativi di disorientamento, stereotipi di un’immaturità adolescenziale. Ma i suoi occhi neri continuavano a perseguitarmi, era come se fosse nato già uomo. Detestavo la sua presenza ingombrante. Ricordo anche che quando mi abbandonavo ai più inutili e superficiali dei passatempi, speravo che fosse lui a scoprirmi più di altri. È vero, lo odiavo, un po’… ma non lo temevo. Non c’era soggezione quando mi guardava. Prendevo solo consapevolezza della mia stupidità attraverso i suoi occhi, così uguali ai miei. Dopo tutti questi anni, non riesco a capire il perché di quelle tendenze un po’ autolesioniste. Non sono indispensabili gesti estremi per manifestare un disagio interiore. A volte si accumulano pian piano, come le onde, quelle piccole. È il rumore ad essere fragoroso quando incontrano gli scogli. Quando lasciai gli studi di filosofia, quando avevo già smesso di sognare, lo osservavo leggere il giornale dopo pranzo, e alterarsi con dei piccoli trafiletti sull’Inter. Mi chiedo se da ingegnere è ancora così forte la passione quando la visione dei suoi undici campioni è possibile attraverso il pc, dall’altra parte del mondo. E se continua a guardare con devozione quell’irraggiungibile Coppa Campioni. Questo è l’ultimo ricordo che ho di lui.
Non fu una scelta facile abbandonare l’università. Ma Kant, Foucault, Magno, Nietzsche, Derrida, Baumgarten non rafforzavano il mio carattere così insicuro. Volevo ritrovarmi. Mi perdevo negli sguardi degli altri. Mi sentivo trasparente, in tutti i sensi. Vedevo degli occhi attraversarmi senza capire. I suoi ovviamente no, potevano tutto. Neri come i miei, uno specchio di verità sempre vigile.
Avevo preso il “volo” e dopo due anni non riuscivo ad adattarmi a questa vita indipendente. Non era un vero e proprio fallimento, ma piuttosto un RIFIUTO. Rifiutavo l’indifferenza, la superficialità e l’invidia. Ma detta così sembra una lista della spesa. Rifiutavo un “sistema”, un microsistema le cui dinamiche mi nauseavano. A vent’anni purtroppo puoi avere un’anima diversamente abile. O sensibile, che dir si voglia. E finisci così con il rigetto verso tutto ciò che vorresti, ma proprio non puoi cambiare. E il rigetto, anche in questo caso, si manifesta palesemente. Mi sentivo trasparente e finii per diventarlo.
Trasparenza, magrezza, trasperenza, stanchezza, magrezza, trasparenza, freddezza, trasparenza, astinenza. Astinenza da VITA.
Ma i suoi occhi puntati addosso, mi vivificavano. Senza parole dure riusciva a chinarsi. A donarmi quell’affetto tanto bramato e di cui continuavo a nutrirmi. Quando partì per Quito, quando non avevo più speranza di tornare a sognare, ci abbracciammo con una sola promessa. Mi chiedo se da fratello, vedi ancora le mie parole e senti ancora le mie lacrime di gioia, per ciò che era così impossibile quanto improvviso. Mi accarezzò lì, in previsione che al ritorno, se fossi riuscita a ritrovare l’uscita da questo tunnel oscuro, sarebbe stato tutto diverso. Più colorato, di sicuro.
Andante – allegro. Canone in re maggiore di Pachelbel, la compagnia del viaggio di ritorno. Mio fratello, il miglior copilota, appena rientrato da Quito. Sta scartando il suo regalo: un cd di canzoni per Natale. Mio figlio, pochi mesi, respira accaldato sul suo petto. E non smette mai di sognare.