DISSEZIONI O DISSERTAZIONI

proust baricco dissezioni dissertazioni-400wi

di Martina Cotena

Siamo una generazione multitasking.

Qualcuno pensa ci sia del positivo, una capacità crescente di elasticità mentale nel riuscire a fare più cose diverse nello stesso momento essendo concentrati su tutto. Qualcuno pensa sia negativo, un voler fare troppo ma effettivamente non fare nulla bene, insomma la sintesi della mediocrità e della noncuranza.

Ma io appartengo a questa generazione e fare una sola cosa alla volta mi risulta come una chiara perdita di tempo, possibilità lasciate morire. Di conseguenza l’altro giorno mentre lavoravo – in questo periodo devo sistemare i disegni della collezione, lavoro manuale e quindi che lascia libertà di pensiero – ascoltavo una lezione di Baricco su Youtube, perché fondamentalmente faccio parte di quella micro-schiera di persone amanti della novità che non vorrebbe mai smettere di apprendere e quindi studiare, e mi ha colpito una frase che lui dice parlando di Proust: “Scrivere significa tenere insieme il mondo dopo che lo hai fatto a pezzi, il mondo ci è restituito aperto ma intero”.

Mi è sembrata bellissima quest’immagine, quasi utopistica, il regalo di un intelligentissimo Babbo Natale: restituire il mondo aperto, come una cartina su cui si possono leggere le strade, vedere dove sono i monumenti importanti e che linea segue il fiume, chiaro e semplice.

cartina-roma

Per chiarire il concetto,  ho dovuto riascoltare due volte il passaggio. Vi faccio una sintesi del concetto che lui spiega in due ore di monologo: Proust, uomo del 1871, come me, donna del 1987, ha bisogno di capire il mondo e per farlo si avvale dell’unico mezzo che sapeva usare: il linguaggio. Proust utilizzava il linguaggio come un bisturi per sezionare il mondo in parti sempre più piccole, sempre più precise, per arrivare al cuore delle cose, per giungere al loro centro, al loro vero nome e quindi capirle.

Fa un esempio molto chiaro di queste dissezioni: il déjà-vu. Il déjà-vu è quella sensazione evanescente di un qualcosa che non riesci a spiegare che ti rimanda ad un emozione, un ricordo, un sentimento, un insieme a cui non riesci a dare un nome, che non riesci a focalizzare e lo scrittore procedendo in quest’operazione proustiana quasi chirurgica può farlo, può dargli un nome, può tagliuzzare quella cosa, arrivare al suo centro e poi restituircela aperta, in modo che possiamo osservarla e magari anche capirla a nostra volta.

Questi déjà-vu lui li chiama fantasmi, i fantasmi delle cose che non capisci e ti tormentano con i loro nomi non detti, con i loro contorni sgranati. Questi fantasmi non sono a tutti indigesti, per così dire, non per tutti sono un problema. Per qualcuno ovviamente è un nodo, un grumo sul fondo della gola che ti infastidisce e ti rimane indigesto. Sarà che io soffro di gastrite, ma a me quel nodo mi sta dando proprio fastidio.

La coincidenza è che in questi giorni sto leggendo anche Il ragazzo mucca di Michele Serra, Il romanzo descrive la crisi di un giornalista/intellettuale, una crisi che diventa malattia, che invade il corpo e tormenta la mente, che gli impedisce di digerire sia il cibo che le consuetudini della vita.

Quello che mi ha rimandato immediatamente alla lezione di Baricco è stato lo stralcio che vi riporto:

Pusio, oh Pusio, le parole! Le parole, Pusio, sola dignità del tuo lavoro, sola speranza, in questo casino di mondo, di potersi parlare, riconoscere tra estranei, capirsi meglio tra amici, battersi tra nemici almeno sapendo come si chiama il luogo della battaglia. Perché capisci bene, cara, che se tu mi hai sparato a Waterloo, e io a Waterloo ti ho ferito di baionetta, quando ci ritroveremo nella sala mensa della casa di riposo per vecchi soldati, la nostra unica via di salvezza sarà ricordarci di Waterloo: e se tu mi dirai, Pusio, “ti ricordi di quella volta ad Austerlitz?”, di che cosa mai potremo conversare, su quale memoria versare lacrime e catarri, e al servizio di quale comune storia ci saremo battuti? Erano pioppi o querce, declivi o campi piatti, guazza o erba verde a ospitare i tuoi spari e il sibilo della mia lama, ad accogliere i nostri rantoli e il nostro sangue? Le parole, Pusio, il suono, la forma, la silouette delle cose, il loro spirito che ci invita a penetrarle, a possederle, a chiamarle per nome…

Questo chiamare le cose per nome, questo regalo di Babbo Natale di una fantastica cartina utopistica, mi è rimasto in mente e mi segue nel mio frenetico multitasking giornaliero, senza lasciarmi pace.

E adesso, se siete riusciti a non annoiarvi e ad arrivare alla fine di questo sproloquio, vi chiederete a quale conclusione io sia arrivata, se possa, effettivamente, offrivi una perla di saggezza o se cadrò nella banalità, magari addirittura concludendo con un modo di dire e meritandomi fischi ed insulti.

In realtà, come in quegli odiosissimi film senza finale dove all’improvviso spuntano i titoli di coda e tu pensi sia solo uno scherzo di cattivo gusto, negligentemente mi vedo costretta a lasciare il mio intervento senza finale poiché Babbo Natale a me quella cartina non l’ha portata e io, non senza dispiacere, non posso mostrarvela. Mi ha però portato un coltellino e da brava allieva sto iniziando a dissezionare il mio mondo, perché l’aspirazione dell’essere umano è capirla questa geometria del mondo, cercare di arrivare a capire parte di questa realtà VERA di cui un po’ tutti parlano.

 

Tutti i diritti riservati.