di Ubaldino
Giuseppe Arcimboldo (Milano 1527-1593) deve la notorietà proprio al suo modo di fare pittura, in cui fiori, frutta, ortaggi ricostruiscono figure umane.
Aveva lavorato al Duomo di Milano eseguendo i cartoni per le vetrate delle Storie di santa Caterina di Alessandria e all’affresco dell’ Albero di Jesse nel Duomo di Monza.
Realizza questo dipinto nel 1573, quando in Polonia vengono sanciti i diritti di libertà religiosa, e in Francia termina la quarta guerra di religione, quella iniziata con la strage degli Ugonotti nella notte di San Bartolomeo; quando un gruppo di bolognesi compie la prima ascensione sul Gran Sasso di Italia e nella lontana Argentina vengono fondate due città come Cordoba e Santa Fé. Siamo, però, in un periodo florido di controriforma, ad appena dieci anni dalla conclusione del Concilio di Trento.
Siamo in piena epoca di manierismo, ma lui anticipa chiaramente quella successiva: un barocco, con la sua voglia di stupire. E ci riesce a pieno, con quel modo di far pittura in maniera surreale e burlesca!
Sicuramente è stato influenzato dagli studi leonardeschi dei volti in rapporto ai moti dell’animo, un vero trattato ante litteram di psicologia, così come avrà influenzato le prime composizioni di natura morta che la storia dell’ Arte conosca: quella di pesche di Ambrogio Figino (1591) e quella di prugne di Fede Galizia(1602).
La fantasia dà corpo alla realtà: la pera diventa un naso, un fico semiaperto è un orecchino, una zucca come cappello, un fungo al posto dell’ orecchio, una mela come gota rubizza, il melograno diventa il mento, il riccio della castagna la bocca, e il frutto simbolo dell’autunno, l’uva, una folta chioma di capelli.
L’assemblaggio, però, acquista tali sentimenti che prendono sopravvento nell’attenzione, per cui gli ornamenti diventano un mero accessorio del dipinto.