di Desiré Alfredo
Quando ho bisogno di sfogarmi la migliore abitudine che ho è impugnare una penna blu e scrivere sulle pagine del mio taccuino. Lo trovo rilassante e soprattutto sicuro, non ho bisogno di misurare le parole perché nessuno le leggerà, o almeno spero. Mi piace concentrarmi sulla rotondità della grafia, riordinare le idee e fare chiarezza sul continuo caos calmo che ho in testa.
Lo chiamo così perché non è un vero e proprio allarme, si tratta solo di una miriade di pensieri e progetti che devono trovare una collocazione.
Ti ricordi la prima volta che ti hanno chiesto cosa volessi fare da grande? Io si. Era una domanda che ci facevamo spesso alle elementari tra compagni di scuola, ed era anche una delle tracce preferite dalle maestre, che ci assegnavano temi per casa a riguardo. Allora ero convita che avrei salvato ogni piccolo essere vivente sulla terra, studiando veterinaria, ma presto mi accorsi che non era la strada che avrei percorso.
Passate le scuole e il liceo, bisognava interrogarsi di nuovo e pensare minimamente di smettere di studiare era inconcepibile se avevi in mente di fare successo. Così iniziai a studiare cinese all’università, viaggiai in Oriente e per la prima volta assaggiai la vera cucina cinese, rimanendo molto affascinata.
Per anni ho creduto davvero che la Cina sarebbe stata il mio futuro, ma le esigenze cambiarono presto e la mia vita venne influenzata negativamente dal cibo.
Adesso tutto dipendeva da quante calorie contesse un pacchetto di crackers e quanto tempo ci avrei messo a consumarle. Le ossessioni non nascono per caso e a tutto c’è un rimedio, ripetevo ogni giorno dentro di me, continuando a praticare ore e ore di sport, allontanandomi da gran parte delle persone che conoscevo e impegnando il mio tempo libero a leggere di tutti i migliori Chef e ristoranti dove avrei voluto mangiare una volta guarita da quella brutta fissazione. Sono sempre stata molto curiosa e iniziai a domandarmi sempre più spesso cosa volesse dire lavorare in un ristorante. Cosa si celava dietro quella macchina perfetta che ogni giorno poteva rendere felice tante persone, perché era così bello poter donare gioia attraverso un pasto?
Mossa da un coraggio che non credevo di avere, risposi a un annuncio di lavoro e iniziò la mia avventura nel vasto mondo della ristorazione. Per un anno o più, mi sono chiesta se fosse quello a rendermi felice al cento per cento. Ho vissuto in Danimarca dove ho avuto la fortuna di lavorare con grandi chef, manager e sommelier.
Ho imparato cosa volesse dire cavarsela da soli, traslocare tre volte a distanza di pochi mesi, avendo come punto di riferimento solo la tua famiglia dall’altro lato della cornetta, e nonostante fossi poi riuscita a trovare una sorta di equilibrio, sentivo che stavo mentendo a me stessa. Capisci che qualcosa non va quando ti guardi allo specchio e il sorriso nemmeno lo ricordi più, quando ti senti costretta a fare qualcosa solo perché lo hai scelto e ti pesa ammettere che hai sbagliato di nuovo. A quel punto una delle cose che mi ha insegnato la
mamma, è farsi un esame di coscienza, come? Sforzandosi di ricordare l’ultima volta che ti sei sentito bene, che hai provato amore per ciò che stavi facendo, che non ti sei sentito fuori posto.
L’esame di coscienza mi ha fatto ricordare quando cucinavo per la mia famiglia durate quel periodo di crisi. Era qualcosa che mi dava gioia, avevo tanta passione nel realizzare una ricetta e non vedevo l’ora di scoprire cosa ne pensassero del risultato ottenuto. Rappresentava un modo
per colmare l’assenza di cibo che avevo imposto nella mia vita, cucinarlo per i cari riempiva il vuoto che avevo. Se morivo dalla voglia di una crostata la preparavo, e vedere mio papà mangiarla con piacere, offuscava quel grande desiderio che provavo di tagliarne una fetta per me. Oppure
ricordo tutte le volte che sono stata sgridata dai manager perché passavo più tempo ad aiutare lo staff di cucina, anche solo facendo mille domande sull’esecuzione di un piatto, invece di prendermi cura dei commensali. Questo ha acceso in me una grande voglia di inseguire quel sogno
e non mollarlo più. E’ una storia a lieto fine direte voi, invece no perché avere un sogno non significa poterlo realizzare subito. Avere un sogno comporta tante difficoltà, ostacoli che sto attraversando, decisioni che ho dovuto prendere, cambiamenti improvvisi. Ogni sogno ha la sua età, e il mio è nato tardi. Come posso dire? Non credo di essere anziana ma quello che voglio fare è un’ ambizione che generalmente si ha già da molto giovani. Mi ritengo fortunata ad aver scoperto, dopo tante vicissitudini quale fosse davvero la mia passione e nonostante questo parto svantaggiata. Ho avuto stimoli e conosciuto tante persone, ma non basta. Adesso sta per iniziare la parte più bella, dimostrare al tempo che passare in fretta non fermerà la mia ambizione di imparare un mestiere.
Per questo sono qui a dirvi che nel momento in cui il vostro esame di
coscienza svelerà cosa siete disposti a fare per sentirvi realizzati, affrettatevi, correte, non soffrite il giudizio degli altri.
La vita è la vostra e solo dentro di noi sappiamo chi siamo davvero, basta esprimerlo al meglio.
Non tutti hanno la fortuna di sapere da subito chi vorrebbero diventare da grandi, ma tutti hanno la possibilità di cambiare la rotta in corsa.
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